È legittimo l’interesse da parte dei datori di lavori di sapere quanti dipendenti si trovano in azienda, se stanno lavorando e se hanno rispettato tutti gli orari. In tal senso i sistemi di rilevazione presenze servono proprio a monitorare tutti gli accessi e le uscite dei lavoratori all’interno della sede aziendale, che sia essa pubblica o privata. Per rispondere a questa necessità è consuetudine ormai l’utilizzo del badge aziendale: un tesserino personale che il dipendente striscia su un tornello d’ingresso e che registra in un software tutti i dati utili. Dati che lo stesso dipendente può sfruttare per avere sempre a portata di mano il numero di ore in ufficio, i ritardi e gli straordinari, senza doverli calcolare a mano.

Il datore di lavoro quindi, in una situazione ordinaria, utilizza questi strumenti per poter verificare ogni volta che ritiene necessario l’effettiva presenza del lavoratore in azienda, così da non avere dubbi su presenze o assenze. Di questi tempi però di ordinario c’è ben poco: la pandemia di Covid-19 ha sconvolto il mondo del lavoro, che si è dovuto piegare ad un massiccio processo di smart working. E qui sorge il dubbio: se i dipendenti lavorano da casa, come vengono controllati?

Rilevazione presenze: la tecnologia viene in aiuto

Tecnicamente, non ci sarebbe nessun problema: l’innovazione tecnologica infatti oggi permetterebbe a prescindere un controllo affidabile del lavoro. In che modo? Le opzioni sono tante. Un esempio sono i sistemi di rilevazione presenze che funzionano tramite delle app marcatempo . Queste trasformano praticamente il proprio smartphone in un marcatempo a tutti gli effetti.

Ma la tecnologia è andata anche oltre: la nuova frontiera è rappresentata dai dati biometrici e i geolocalizzatori. Strumenti che da un lato garantirebbero un controllo super efficace dei dipendenti, dall’altro però risulterebbero fin troppo invasivi, finendo per ledere i dati sensibili, personali e privati dei singoli lavoratori. In tal senso quindi è importante cercare di capire cosa dice la legge, per far sì che un datore di lavoro possa scegliere di utilizzare questi strumenti senza avere problemi con la giustizia.

Rilevazione presenze: cosa dice la legge

A cambiare le cose di recente è stato il Jobs Act, che nel 2015 ha introdotto una serie di modifiche legislative alla disciplina dei controlli sulle presenze. Oggetto di cambiamento è stata la regolamentazione degli accessi dei dipendenti alle nuove tecnologie, all’uso di smartphone, tablet, pc e badge. Innanzitutto, è stato stabilito che controlli e modalità di rilevazione presenze devono essere oggetto di un preventivo accordo sindacale o, in alternativa, dell’autorizzazione preventiva dell’Ispettorato del lavoro. Questi due provvedimenti hanno la funzione di garantire il rispetto, da parte dell’azienda, delle norme. Nella pratica, servono ad evitare che i controlli siano troppo invasivi, sproporzionati e lesivi della privacy del lavoratore (ad esempio, nei momenti della giornata in cui non si trova in servizio).

Come deve comportarsi quindi l’azienda? A seconda dello strumento utilizzato, avrà più o meno obblighi. Nel primo caso, se si avvale di controllare soltanto accesso ed uscita dai locali aziendali, senza che il loro uso venga registrato, non è necessaria alcuna particolare procedura; nel secondo caso, se gli strumenti di rilevazione delle presenze memorizzano gli orari di entrata ed uscita grazie ad un software (e quindi con badge magnetici), il loro uso può essere legittimato da un’adeguata informativa e nel rispetto di quanto disposto in materia di privacy; nel terzo caso, se gli strumenti utilizzati dall’azienda invece, oltre al normale controllo di accessi e presenze, rilevano e memorizzano anche gli spostamenti sia all’interno che all’esterno dell’azienda, la loro legittimità è subordinata alla stipulazione di uno specifico accordo sindacale o, al posto di questo, di un’autorizzazione dell’Ispettorato del lavoro territorialmente competente.